Satisfaction

Satisfaction

La solidità granitica del rock'n'roll, tra succhi di frutta, radio e televisione. Un mondo diviso in due, dove devi scegliere da che parte stare, e pregare non sia quella sbagliata.

2 Agosto 2012

Non sto mica scherzando. Come Snoopy che seduto sul tetto della sua cuccia si appresta a battere sulla macchina da scrivere «Era una notte buia e tempestosa...», anch'io son qui un po' titubante riguardo all'inizio di questa storia, che, a voler ben vedere, dovrebbe suonare più o meno così: «È la solita notte da lupi nel bronx e nel locale stan suonando un blues degli Stones».

Sì, sembra l'inizio di Hanno ucciso l'Uomo Ragno, quel seminale pezzo di storia del rock a fumetti disegnato ormai molti anni or sono da quel genio incompreso (almeno fino a qualche mese fa) di Massimo Pezzali in arte Max. E forse lo è davvero.

Ponce al mandarino

Dopotutto i marciapiedi di Lambrate al calar del sole non son propriamente un posto dove se fossi una ragazzina che cammina da sola mi sentirei del tutto a mio agio (quando cammino da solo sui marciapiedi di Lambrate al calar del sole sono infatti proprio quei momenti che ringrazio fortissimamente Dio di non avermi fatto ragazzina) e dentro al Cafè de Milàn (storico bar meneghino che ha conservato il dialetto solo nell'insegna, visto che ormai da tempo è impeccabilmente gestito da una famiglia di cinesi sempre più numerosa), sullo schermo da 50 pollici del Samsung che i proprietari asiatici hanno vinto da Mediaworld scommettendo che l'Italia non avrebbe conquistato gli Europei di calcio, stanno passando il video di Love Spreads.

Io ho ordinato il solito, rinfrescante, ponce caldo al mandarino (il ponce, al mandarino dico, non il cinese, mandarino, intesa come potenziale lingua dominante dei prossimi due o tre secoli), quando entra con passo insicuro il fratello zoppo di Shel Shapiro: capello bianco lungo fino alle spalle e sapientemente unto, barba incolta come la steppa del Kazakistan, jeans liso e stretto che gli hipster di oggi ne han di strada da fare, stivale così anni '70 che manca solo lo sperone e maglietta recante l'effige di una nota icona pop del passato recente.

Si avvicina inesorabile (dopotutto son l'unico essere umano privo di occhi a mandorla lì dentro, in quel momento), rallenta un attimo come se si soffermasse ad ascoltare la musica, poi punta dritto verso di me con fare deciso, mi affianca e ordina un succo alla pera. Nemmeno il tempo di pensare «Via, anche oggi l'ho scampata bella», che si volta all'improvviso, mi dà un colpetto sul braccio, indica con un rapido movimento del mento verso l'alto la scritta in sovrimpressione che sta scorrendo sulle immagini e stringe gli occhi un attimo, in quel gesto assolutamente inutile che i miopi conoscono benissimo, mentre chi ci vede bene scambia costantemente per una posa presa da un film di Sergio Leone.

  • È bello quando alla radio si ricordano ancora del rock.

Io do un'occhiata in su per cercare conferme: quello è a tutti gli effetti un televisore al plasma (ci giurerebbe anche Guglielmo Marconi, pur senza averne mai visto uno) e forse sarebbe meglio parlare parlar di britpop, o magari specificare rock inglese anni '90, oppure rimanere sul vago dicendo "questi gruppi qua", che ne so. Ma l'ultima cosa che voglio — oggi in particolare e nella vita in generale — è impelagarmi in una discussione sui generi musicali e sugli strumenti adatti per fruirne meglio nell'era della telecomunicazione globale con un figlio dei fiori ribelle (forse perché concepito dai fiori stessi insieme a un'Harley Davidson). E poi, in fin dei conti, sono anni che vado gridando ai quattro venti che odio le etichette, le catalogazioni e le definizioni musicali di ogni sorta: non è proprio il caso di mettersi proprio oggi a negare il fatto inconfutabile che i concetti di rock, di pop, di radio e di televisione son così vasti e dai contorni indefiniti, vaghi come le stelle dell'Orsa.

Così lui continua, per niente scoraggiato, anzi, forse spinto dal mio silenzio: dopotutto è credenza comune che chi tace acconsente, anche quando è del tutto evidente che in fin dei conti chi tace sta zitto, semplicemente.

  • Io da sempre, tra Beatles e Rolling Stones, gli Stones tutta la vita!

Giro il cucchiaino con fare autistico, massacrando la fetta di arancio in quel che resta del liquore bollente, guardo la sua maglietta su cui campeggia un Prince d'annata, a cavallo della moto dei Chips, tutto avvolto nel fumo della notte di Los Angeles, sotto la scritta suggestiva "Purple Rain", e mi invento una faccia che potrebbe voler dire: «Eh, ma anche qualsiasi altra cosa». Lui non coglie, anzi rilancia:

  • Cioè, non vorrai mica mettere la fascia di Richard Keiths con quei capellini da frocetto di Paul McCarthy?

Non è un Paese per vecchi

Penso al caschetto a pentola di Paul McCartney, penso alle migliaia di ragazze in delirio davanti al caschetto a pentola di Paul McCartney, penso al bellissimo, crudo e dolente romanzo di Cormac McCarthy, penso al caschetto a pentola di Javier Bardem nel bellissimo, crudo e grottesco film dei fratelli Cohen libramente tratto dal dolente, crudo e bellissimo romanzo di Cormac McCarthy.

Penso che non è un Paese per vecchi. Soprattutto per vecchi rocker dislessici con un principio di Alzheimer.

  • E poi Mick Jaggs, ma come si muove Mick Jaggs? C'hanno fatto anche la canzone, quella nuova: quegli altri frocetti come si chiamano?

Dico «Maroon 5...», un po' timoroso: non nego che da uno a dieci mi vergogno undici a passar per quello che conosce i Maroon 5, o che comunque di ricorda come si chiamano. Ma lui non sembra curarsi della cosa, anzi: gli si accende come una luce negli occhi e mi dice «Bravo!». Son soddisfazioni.

  • Ecco bravo quelli: move like Jaggs! Ma dimmi un po': come si muove Mick Jaggs?

Si stacca dal bancone e improvvisa un balletto che dovrebbe simulare le movenze del giovane Mick Jagger, ma che invece somiglia molto di più a una versione epilettica e scoordinata di una parodia di Micheal Jackson fatta da un Gino Strada anoressico con un orecchino a forma di teschio e l'altro a forma di croce celtica. Poi si ferma, grazie al cielo, appoggia rumorosamente il bicchiere brandizzato "Yoga" sul bancone, mi dà una pacca sulla spalla, mi indica di nuovo il televisore. Mormora:

  • Grandi...

Lo so

Il video finisce, parte la pubblicità di una nota marca di zaini per le scuole medie ed è lì che io faccio l'errore. E lo faccio sapendo di star facendolo (questa rimarrà la mia maggior colpa, per la quale il buon Dio forse un giorno mi punirà scaraventandomi all'Inferno in quel girone dove ti fanno ascoltar Beggars Banquet in loop per l'eternità). Perché lo so, io lo so che potrei lasciare un povero vecchio residuato di un'ipotetica Woodstock made in Idroscalo beato nella sua ignoranza, lo so che potrei far rimanere un anziano roadie mancato nell'entusiamo figlio della sua confusione e dei suoi decimi di vista mancanti.

Lo so. Ma ci son quelle volte nella vita che le cose le fai anche se sai che potresti non farle. Nella vita, dirla tutta, ci son pure quelle volte che le cose le fai anche se sai che dovresti, non farle.

E allora figuriamoci. Chiamala debolezza, chiamala forma di egoismo. Chiamala esigenza di completezza, chiamala esercizio di rispetto nei confronti di una band e di un album di cui hai consumato il vinile (il vinile, sì, anche se era il '98) e di un riff di slide guitar che rimane uno dei più fichi di sempre. Fatto sta che ci son quelle volte nella vita che non riesci a trattenerti, anche se il buon senso direbbe che invece sarebbe meglio, trattenersi, perché in fondo in fondo lo sai, che invece è giusto non farlo. Qualunque sia il significato che vogliam dare alla parola "giusto".

E allora è lì che io non mi trattengo, proprio sul finale, quando bastava un ultimo piccolo sforzo per lasciar scivolare tutto sui ben più miti binari delle frasi fatte del rock'n'roll d'altri tempi. Non mi trattengo e devo confessare: è più forte di me il fascino della sfida contro quel mulino a vento che ha assunto, in questo afoso pomeriggio metropolitano, in questo bar di Pechino Est, le sembianze di Lemmy. Quello dei Motörhead, ma senza brufoloni.

Fossi Enrico Mentana, la chiamerei dovere di cronaca. Ma ogni giorno ringrazio fortissimamente Dio di non avermi fatto Enrico Mentana, quindi credo che dovrò trovare un'altro modo per chiamarla. Prometto che ci penso.

E quindi sì, confesso, piano e a bassa voce, ma con tono deciso e guardandolo dritto negli occhi ancora inebriati dal ricordo di Jaggs, di come si muove, Jaggs. Gran Dio come si muove, quel Jaggs. E lo dico, a bassa voce, ma scandendo bene le parole come un consumato giocatore d'azzardo che a poker cala la sua scala reale rivelando le carte lentamente, a una a una.

  • Quelli comunque eran gli Stone Roses.

Lui rimane un attimo basito, con la mandibola a mezz'asta e lo sguardo un po' perso. Adesso forse realizza l'incogruenza di quel video pieno di gente che suonava la chitarra come i Rolling Stones ma sembrava uscita dal parrucchiere dei Beatles. Accusa il colpo, ma incassa bene, raccoglie le idee — le poche che rimangono — prende fiato e poi si scuote, riprende forza e mi ribatte stizzito:

  • E chi sarebbero? Un altro gruppo di frocetti che con due ritornelli melensi pensa di poterci fregare il rock da sotto il culo?

Lo so

Ecco. A quel punto capisco che è finita.

Appoggio il bicchiere, faccio un cenno di assenso e abbasso lo sguardo, perché è lì che capisco di aver perso e — peggio ancora — capisco che non aver mai avuto, nemmeno per un attimo, la minima speranza di vincere. Perché non c'è peggior miope di quello che non si vuol mettere gli occhiali. E non c'è peggior sordo di quello che non ci sente più perché ha ascoltato troppe chitarre distorte a due passi da quei bei muri di Marshall di una volta. Capisco che il rock è così: duro puro e granitico, marmorizzato nei suoi quattro giri di accordi e nelle sue convinzioni dogmatiche che ti rendono forte e inattaccabile come solo la fede sa fare. Capisco che è uno stato mentale, il rock, alterato, ma pure sempre uno stato mentale, e che come tale non potrebbe sconfiggerlo nemmeno Don Chisciotte.

Così lo guardo un'ultima volta, lui, questo Gesù senza croce ma col chiodo anche d'estate, fiero e incrollabile, ne noto la somiglianza con l'eroe picaresco di Cervantes, e mi vedo davanti, tutta in un momento, la vecchiaia triste e priva di certezze che mi attende, me che tra i Beatles e i Rolling Stones io gli Stone Roses tutta la vita.

Appoggio il bicchiere, faccio un cenno di assenso e me ne vado: lo sguardo basso e la coda tra le gambe, io, piccolo Sancho Panza miscredente, ma ormai del tutto persuaso che questo mondo in cui viviamo e le persone che lo popolano si dividono principalmente in due parti: da un lato ci sono i gli Stones, dall'altro tutta una massa informe — non ben definita ma pericolosissima — di sedicenti froci che ci voglion fregare il rock da sotto il culo.

Strano che, alla radio, non abbian detto ancora niente.

Hip-pop neoclassico
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