L'eterno ritorno degli alieni

L'eterno ritorno degli alieni

Sono arrivati. Son roba strane da un altro mondo e fanno una gran fatica a farsi capire. Che messa così è un po' l'autobiografia di Denis Villeneuve, regista di Arrival.

28 Gennaio 2017

Non si capisse dal titolo, sono arrivati. Dice chi. No, non l'arrotino. Gli alieni, e chi se no? Per l'ennesima volta, tra l'altro, come ci suggerirebbe dalla regia qualunque appassionato di fantascienza.

A questo giro però la novità è che hanno investito tutto nel design delle astronavi: ufficialmente conclusasi l'era del pacchiano (quel tripudio di alettoni tamarri, luci abbaglianti, raggi laser e missili vietati dalla municipalità anche la notte di capodanno a cui i predecessori del genere ci hanno abituato), la nuova art direction extra-terrestre vira su un radical-chic molto minimal da Fuorisalone e sceglie il nostro pianeta per presentare la nuova collezione, fatta di dodici navi spaziali dalle linee geometricamente perfette, che stanno esattamente a metà tra le dolci rotondità di un uovo di Pasqua e la calma intimità appiattita di una tavoletta del cesso. Per capirsi meglio, una forma palesemente ispirata — ai limiti del plagio — a quella di uno dei migliori vibratori a controllo remoto wireless sul mercato, ma mooolto più grosso. Sexy e discreto allo stesso tempo, nonostante le dimensioni che — si sa — contano eccome.

Un ottimo lavoro comunque, sul serio.

Peccato che lo sforzo economico per questo rinnovamento di immagine debba essere stato notevole, visto che evidentemente non è poi rimasto budget per la cura del corpo e il personal shopper: i due stagisti che vengono mandati allo sbaraglio sulla Terra per questo improbabile primo (si fa per dire, direbbero gli appassionati di fantascienza di cui sopra) contatto hanno infatti come unica fortuna quella di capitare su un pianeta in cui non c'è dress-code né selezione all'ingresso, altrimenti sarebbero rimasti oltre la ionosfera, al freddo e al gelo, guardati in cagnesco dal buttafuori che non avrebbe voluto sapere delle loro suppliche intergalattiche o dei loro racconti strappalacrime su quanta strada (in anni-luce) avessero dovuto fare per arrivare in orario alle porte del locale. Nudi (qualunque cosa significhi nel caso specifico) e bitorzoluti, assomigliano a un incrocio tra un tubero con sette radici (chiamiamole gambe, da cui il poco invitante nome eptapodi) e quegli imbarazzanti massaggiatori del cuoio capelluto che andavano di moda ai tempi di Postal Market. Ma dopotutto chi siamo noi per giudicare un alieno dall'aspetto («bella fia te» ti potrebbe rispondere lui, citando il poeta)?

Se riuscisse a comunicare, s'intende.

E qui arriviamo al punto dolente della storia.

Perché questa storia — lo sanno ormai anche i bambini — non è mica una storia di alieni: no, è una storia sul linguaggio, sulla paura del diverso, sul provarci e andare avanti comunque, su quanto è difficile parlarsi e quanto è invece facile fraintendersi, perché siamo prevenuti per natura o anche solo perché equivocare a prescindere costa meno fatica di provare a venirsi incontro. Succede già tra marito e moglie, figuriamoci tra una redhead niente male che di mestiere fa la linguista (faccio finta di non aver sentito le vostre battutine) e due cosi che per farsi capire sputano dalle zampe fiotti di pseudo-inchiostro al nero di seppia che a loro volta vanno a formare macchie di Rorschach in cui ognuno può vedere quel che vuole: anelli di fumo, cipolle fritte, impronte di tazzine di caffè su fazzoletti del bar, la copertina del nuovo album dei Radiohead. Cerchi insomma.

Già, perché qui è tutto circolare, tutto torna alla fine (come direbbe quell'altro poeta) anche per il semplice fatto che — data la definizione di circonferenza — qui non c'è né fine né inizio, o forse la fine è l'inizio. O l'inizio è la fine. O la fine dell'inizio. E viceversa. Dove "e viceversa" sta lì per pararsi il culo nel caso mi sia persa qualcuna delle N combinazioni possibili tra inizio, fine e tutto quello che sta nel mezzo.

Comunque, se vi siete persi, tranquilli: lo deve fare.

Ma non disperate: c'è tempo per ricominciare dall'inizio (o dalla fine?) e rivalutare gli eventi da una nuova angolazione (che inevitabilmente — ricordate quella storia del cerchio? — non farà che rivelarsi in realtà la stessa di prima, ma almeno c'abbiam provato). E mai come in questo caso, quanto appena detto — "c'è tempo" per la precisione — diventa stile di vita e stato mentale invece della solita frase fatta. Sì, perché gli alieni di Villeneuve hanno con il tempo un rapporto molto più rilassato di quello abbiamo noi umani (il nostro, più che un rapporto, è un'ossessione), una concezione spastica nel senso tralfamadoriano del termine che niente ha a che vedere con l'umano concetto di sequenza di momenti, ma secondo la quale ogni momento è permanente e tutto il tempo è tutto il tempo. Insomma, per dirla con Vonnegut, gli eptapodi, son gente che non ha l'aria di credere nel libero arbitrio.

Un film in cui ti pare costantemente di non capirci un cazzo, ma è una condizione solamente momentanea.

Può suonare bizzarra, messa così, ma la verità è che questa (ovvero quella di spettatori prigionieri — come insetti — di un blocco d'ambra) è l'unica prospettiva utile per approcciare Arrival. Un film in cui ti pare costantemente di non capirci un cazzo, ma è una condizione solamente momentanea (dove — per quanto appena detto — "costantemente" e "momentanea" vanno a formare tutt'altro che un ossimoro), nel senso che in ogni esatto momento stai sul serio non capendoci un cazzo, ma contemporaneamente ci sono un sacco di altri momenti in cui hai già capito tutto ma non lo sapevi ancora.

Non fa una piega, no?

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